di Nico Carlucci
“Perfetta vita e alto merto inciela
donna più su” mi disse, “a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dante, Canto III, "Il Paradiso", Divina Commedia
Sul modo di vestirsi dei religiosi e in modo particolare delle monache, non esiste ancora una riflessione di carattere storico-antropologica che tenga conto del vissuto e del modo in cui le donne si sono percepite indossando quanto era stato deciso dai consacrati maschi (velo, tunica, sandali, cintura, cilicio, rosario). A questo scopo, credo che il concetto di cultura possa essere utile per una ricostruzione dei significati profondi che accompagna la donna e la sua “rappresentazione,” attraverso il suo corpo, nella storia.
Per cultura intendo un “insieme complesso” di funzioni, norme, tecniche, miti, abitudini, tradizioni, tratti che si integrano in una struttura cui diamo il nome di modello (Alfred L. Krober, The nature of Culture, [Chicago], University Chicago Press, [1952].
Isolare questi fattori, nel nostro caso i diversi capi dell’abito monastico femminile, e rimetterli insieme, significa ripercorrere la lunga durata storica dai quali nascono, il tessuto, interiore e sociale delle donne nella vita quotidiana; ma anche quanto gli uomini-maschi, soggetti agenti della cultura, hanno creato, teorizzato, proiettato nell’ambito nel simbolismo femminile.
Sono stati, infatti, i monaci, i teologi, i vescovi, i papi che hanno “pensato l’umanità” (Jacques Dalarun, “La donna vista dai chierici, in Storia delle donne, Bari, Laterza, 1990, tomo II, pp.24-43). In altre parole, gli uomini di chiesa hanno creato, nel periodo della fioritura degli ordini religiosi, delle abbazie, delle cattedrali, della donna angelicata quel modello culturale di cui vorrei ridisegnare la trama per coglierne lo “stile”, quel modello in cui proprio il costume religioso, maschile e femminile, hanno una funzione pregnante, se non assoluta (mi riferisco al Medioevo cristiano anche se la mia ricostruzione, di lunga durata, appunto, non potrebbe fare a meno di altre epoche, di altri modelli).
Sicuramente, come è stato evidenziato da alcuni studiosi, l’abito femminile presuppone che le forme del corpo siano il più possibile dissimulate, per ragioni di riserbo sessuale. E’ anche vero che le vesti delle monache, spose di Dio, secondo la teologia cattolica, danno una dignità trascendente a chi le indossa, oltre che segnalare l’appartenenza a un certo ordine o congregazione (AA. VV., “Costumi dei monaci e dei religiosi” in Dizionario degli Istituti di Perfezione, III, cc. 204-40 [Roma], Paoline).
Tuttavia, il mio discorso vorrebbe concentrarsi in modo particolare, attraverso vergini consacrate a Dio, le monache, appunto, sull’esperienza che queste fanno del proprio corpo che è diversa da quella dei religiosi maschi. Ma anche sul messaggio culturale che gli “altri” percepiscono del corpo femminile quando è abbigliato in un modo piuttosto che in un altro.
SOGLIA DEL PARADISO
Per prima cosa bisogna riconoscere che nella storia culturale dell’Occidente, dove il monachesimo è nato sviluppando una civiltà altissima (nell’arte, nell’architettura, nella letteratura ecc.), i maschi, i monaci-maschi, hanno rifiutato, negato il corpo femminile.
Gli studi antropologici hanno evidenziato abbondantemente che questo rifiuto nasceva da timore che questi provavano per l’apertura del corpo femminile.
La donna è aperta al trascendente, alla morte che per gli uomini è “luminosa e tremenda”. Da qui la tabuizzazione presso tutte le popolazioni che conosciamo delle mestruazioni, della gravidanza, del parto, del puerperio e cioè di tutti quei momenti in cui la donna è "aperta", appunto, all’impurità della morte che contamina e annienta, con il suo disordine, il regno dei vivi (si veda al riguardo: Ida Magli, La donna: un problema aperto, Firenze, Valecchi, 1974. Tutta la serie mitologica di C. Levi-Strauss ci dà informazioni utilissime per la verifica del nostro discorso)
Per Tertulliano la donna è “porta del Demonio” (PL I, col.1305). I teologi usano, riferendosi alla Madonna, appellativi come soglia, canale, acquedotto. Oddone di Cluny scrive in forma esplicita il ribrezzo per una fisicità “altra” quale quella femminile: “ La bellezza del corpo sta solo nella sua pelle. In realtà se gli uomini potessero vedere ciò che è sotto la pelle, la vista delle donne darebbe la nausea. Mentre non sopportiamo di toccare uno sputo o un escremento nemmeno con la punta delle dita, come possiamo desiderare questo sacco di escrementi? ( PL 133, coll. 556 e 648).
Sull’evitazione delle donne hanno scritto etnologi, antropologi, storici delle religioni. Oggi è lo storico che ripensa, con le categorie dell’antropologia, l’evitazione femminile.
Se presso popolazioni “selvagge” troviamo la capanna delle mestruanti come prova concreta dell’evitazione, da noi le donne, laiche e religiose, hanno conosciuto evitazioni, altrettanto concrete (vedi la clausura o il non dover uscire da casa, oppure, a proposito della chiusura del suo corpo “aperto”, l’obbligo della verginità).
I monaci, inventori della regola e degli abiti che le donne indossano, hanno, così, deciso di vivere separati, solamente tra loro, tra maschi, eliminando del tutto le donne dalla loro “società” (Ida Magli, La sessualità maschile, Milano, Mondadori, 1989). Di conseguenza, essi erano del tutto privi di sensibilità nei confronti dei bisogni femminili avendone negato la fisicità.
Tunica, mantello, sandali, cintura, tonsura, sono stati inventati dai monaci di sesso maschile per se stessi e estesi alle donne con qualche elemento in più come, per esempio, il velo.
Eloisa, fondatrice del Paracleto, in una lettera ad Abelardo, si lamenta scrivendogli le sue riflessioni sulla regola benedettina, della tunica di lana che questa prescrive, in quanto non adatta alle donne perché si sporca di sangue con le mestruazioni: “E’ evidente – dice Eloisa- che la Regola fu scritta per gli uomini. Che senso ha per le donne quella che in lei si dice riguardo ai cappucci, alla gambiera e agli scapolari? Che cosa interessa a noi donne portare sulla pelle nuda dal momento che noi, a causa delle mestruazioni, non possiamo affatto indossarli”. Storia delle mie disgrazie. Lettere di Abelardo e Eloisa, a cura di F. Roncoroni, Garzanti, Milano, 1974).
L’abito monastico della sposa presuppone che tutto di lei debba essere coperto. Il coprire nega la femminilità, l’attrattiva della femminilità, anche essa costruzione maschile, nel suo messaggio sessuale e di “bellezza”. Gli occhi, le mani, e qualche volta i piedi, sono le uniche parti della consacrata ad essere risparmiati dalla copertura.
In questa sede prenderò in considerazione solamente due capi d’abbigliamento della sposa di Dio: il velo e i sandali.
RITRATTI DI DONNE VELATE
Il velo è un capo dell’abbigliamento femminile che ritroviamo nell’ebraismo, nell’islamismo (l’analisi comparativa con culture diverse dalla nostra aiuta moltissimo a comprendere “noi”).
Dire velo significa dire testa-capelli delle donne che si possono correlare ai significati della sessualità-verginità-possesso relativi all’uso che ne fanno i maschi.
I capelli femminili hanno una valenza di bellezza nel vissuto quotidiano delle donne. Quando sono lunghi e sciolti rappresentano la bellezza della giovinezza, dell’attrattiva sessuale, la pienezza della verginità che poeti cantano nella poesia, raffigurano nell’arte.
Il loro taglio testimonia l’avvenuta deflorazione della donna da parte del marito-uomo o del marito-Dio. A proposito, ricordiamo, che non è molto lontano nel tempo il costume delle donne europee di tagliarsi i capelli dopo il matrimonio.
Il velo assolve alla funzione di coprire, nascondere la tonsura femminile.
Testa, capelli-tagliati, deflorazione non hanno il loro corrispettivo maschile.
Nella tonsura del monaco la testa rimane scoperta per segnalare la virilità di quest’ultimo. Egli affronta il mondo a “testa alta”, scoperta; la donna, umile e devota, si china davanti alla divinità con il velo.
Fu San Paolo a volere le femminine cristiane velate (lettera ai Corinzi 11,6).
Il velo rimanda a significati di potenza trascendente. La testa velata, infatti, implica un rapporto con la luminosità della morte presso moltissime popolazioni. Alcuni esempi li troviamo proprio nell’antica Roma: il sacerdote che sacrifica agli dèi colui che si getta nel Tevere autoimolandosi.
Cesare morente, si coprono la testa, una testa, però, con capelli senza “trascendenza”.
E le donne? Non abbiamo detto che i capelli lunghi delle donne sono la loro bellezza che ornano con perle, nastri, corone di fiori, tutte cose analoghe e alle donne, alla loro bellezza?
Quanto hanno dovuto soffrire, le donne, quando rituali o punizioni pubbliche hanno imposto loro la rasatura? (durante la II guerra mondiale ad una donna che tradiva andando a letto con il nemico si “rapava”).
Alessandro Manzoni nel narrare la storia della monaca di Monza descrive la sofferenza che questa ha provato nel dover aderire al ruolo assegnatole dall’ordine di appartenenza e quindi anche dall’abito religioso prescritto: “ Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata, e dalla benda,usciva su una tempia una ciotola di capelli neri, cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli corti, da quando erano stati tagliati nella cerimonia del vestimento (I promessi sposi, a cura di Piero Nardi, Milano, Mondadori, [1970], p. 235).
PERCHE’ NON POSSO LIBRARMI NELL’ARIA?
I sandali sono un altro tratto che vorrei isolare. Dire sandali vuol dire piedi e cioè ancora una volta differenza di significati tra uomini e donne.
Andare scalzo è stato sempre interpretato come segno di umiltà. I sandali alludono alla nudità del piede, ma per motivi concreti, per esempio, la rigidità del clima in inverno, eremiti, monaci, sono stati costretti a calzare i sandali che, comunque, rimandavano al piede nudo e penitente.
Già con la regola di Cassiano (400 d. C.) si parla dell’uso dei sandali da parte dei monaci.
La differenza fra piedi nudi degli uomini e piedi nudi delle donne anche nei sandali è enorme.
Con i piedi i maschi “calpestano” la terra, stanno con i piedi per terra, appunto, che è loro, mentre le femminine, attraverso questa parte del loro corpo, si librano nell’aria. Al riguardo, sarebbe interessante ripercorrere il cambiamento nella storia della calzatura femminile. Ne verrebbe fuori un quadro in cui i significati di eroticità, leggerezza, eleganza, purezza, trascendenza si mescolano con i suoi piedi.
Questi significati sono riassunti in forma gestaltica nel balletto classico (le scarpette rosse delle Ninfe e delle Silfidi), nella fiaba (la scarpetta di cristallo di Cenerentola), nei film (penso soprattutto a “Amore pedestre” di Marcel Fabre, 1914).
I significati di leggerezza trascendente dei piedi interrelati a quelli di bellezza-verginità-giovinezza dei capelli riassumono e sintetizzano l’immagine ideale femminile creata dal sogno maschile.
L’abito religioso delle monache vuole, al contrario, piedi nudi nei sandali, calze pesanti, grosse scarpe nere. A volte le monache vi si adeguano in silenzio, obbediscono alla regola. Altre volte si ribellano. E’ a queste voci che bisogna dare spazio.
Teresa di Lisieux, monaca carmelitana
“Perfetta vita e alto merto inciela
donna più su” mi disse, “a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dante, Canto III, "Il Paradiso", Divina Commedia
Sul modo di vestirsi dei religiosi e in modo particolare delle monache, non esiste ancora una riflessione di carattere storico-antropologica che tenga conto del vissuto e del modo in cui le donne si sono percepite indossando quanto era stato deciso dai consacrati maschi (velo, tunica, sandali, cintura, cilicio, rosario). A questo scopo, credo che il concetto di cultura possa essere utile per una ricostruzione dei significati profondi che accompagna la donna e la sua “rappresentazione,” attraverso il suo corpo, nella storia.
Per cultura intendo un “insieme complesso” di funzioni, norme, tecniche, miti, abitudini, tradizioni, tratti che si integrano in una struttura cui diamo il nome di modello (Alfred L. Krober, The nature of Culture, [Chicago], University Chicago Press, [1952].
Isolare questi fattori, nel nostro caso i diversi capi dell’abito monastico femminile, e rimetterli insieme, significa ripercorrere la lunga durata storica dai quali nascono, il tessuto, interiore e sociale delle donne nella vita quotidiana; ma anche quanto gli uomini-maschi, soggetti agenti della cultura, hanno creato, teorizzato, proiettato nell’ambito nel simbolismo femminile.
Sono stati, infatti, i monaci, i teologi, i vescovi, i papi che hanno “pensato l’umanità” (Jacques Dalarun, “La donna vista dai chierici, in Storia delle donne, Bari, Laterza, 1990, tomo II, pp.24-43). In altre parole, gli uomini di chiesa hanno creato, nel periodo della fioritura degli ordini religiosi, delle abbazie, delle cattedrali, della donna angelicata quel modello culturale di cui vorrei ridisegnare la trama per coglierne lo “stile”, quel modello in cui proprio il costume religioso, maschile e femminile, hanno una funzione pregnante, se non assoluta (mi riferisco al Medioevo cristiano anche se la mia ricostruzione, di lunga durata, appunto, non potrebbe fare a meno di altre epoche, di altri modelli).
Sicuramente, come è stato evidenziato da alcuni studiosi, l’abito femminile presuppone che le forme del corpo siano il più possibile dissimulate, per ragioni di riserbo sessuale. E’ anche vero che le vesti delle monache, spose di Dio, secondo la teologia cattolica, danno una dignità trascendente a chi le indossa, oltre che segnalare l’appartenenza a un certo ordine o congregazione (AA. VV., “Costumi dei monaci e dei religiosi” in Dizionario degli Istituti di Perfezione, III, cc. 204-40 [Roma], Paoline).
Tuttavia, il mio discorso vorrebbe concentrarsi in modo particolare, attraverso vergini consacrate a Dio, le monache, appunto, sull’esperienza che queste fanno del proprio corpo che è diversa da quella dei religiosi maschi. Ma anche sul messaggio culturale che gli “altri” percepiscono del corpo femminile quando è abbigliato in un modo piuttosto che in un altro.
SOGLIA DEL PARADISO
Per prima cosa bisogna riconoscere che nella storia culturale dell’Occidente, dove il monachesimo è nato sviluppando una civiltà altissima (nell’arte, nell’architettura, nella letteratura ecc.), i maschi, i monaci-maschi, hanno rifiutato, negato il corpo femminile.
Gli studi antropologici hanno evidenziato abbondantemente che questo rifiuto nasceva da timore che questi provavano per l’apertura del corpo femminile.
La donna è aperta al trascendente, alla morte che per gli uomini è “luminosa e tremenda”. Da qui la tabuizzazione presso tutte le popolazioni che conosciamo delle mestruazioni, della gravidanza, del parto, del puerperio e cioè di tutti quei momenti in cui la donna è "aperta", appunto, all’impurità della morte che contamina e annienta, con il suo disordine, il regno dei vivi (si veda al riguardo: Ida Magli, La donna: un problema aperto, Firenze, Valecchi, 1974. Tutta la serie mitologica di C. Levi-Strauss ci dà informazioni utilissime per la verifica del nostro discorso)
Per Tertulliano la donna è “porta del Demonio” (PL I, col.1305). I teologi usano, riferendosi alla Madonna, appellativi come soglia, canale, acquedotto. Oddone di Cluny scrive in forma esplicita il ribrezzo per una fisicità “altra” quale quella femminile: “ La bellezza del corpo sta solo nella sua pelle. In realtà se gli uomini potessero vedere ciò che è sotto la pelle, la vista delle donne darebbe la nausea. Mentre non sopportiamo di toccare uno sputo o un escremento nemmeno con la punta delle dita, come possiamo desiderare questo sacco di escrementi? ( PL 133, coll. 556 e 648).
Sull’evitazione delle donne hanno scritto etnologi, antropologi, storici delle religioni. Oggi è lo storico che ripensa, con le categorie dell’antropologia, l’evitazione femminile.
Se presso popolazioni “selvagge” troviamo la capanna delle mestruanti come prova concreta dell’evitazione, da noi le donne, laiche e religiose, hanno conosciuto evitazioni, altrettanto concrete (vedi la clausura o il non dover uscire da casa, oppure, a proposito della chiusura del suo corpo “aperto”, l’obbligo della verginità).
I monaci, inventori della regola e degli abiti che le donne indossano, hanno, così, deciso di vivere separati, solamente tra loro, tra maschi, eliminando del tutto le donne dalla loro “società” (Ida Magli, La sessualità maschile, Milano, Mondadori, 1989). Di conseguenza, essi erano del tutto privi di sensibilità nei confronti dei bisogni femminili avendone negato la fisicità.
Tunica, mantello, sandali, cintura, tonsura, sono stati inventati dai monaci di sesso maschile per se stessi e estesi alle donne con qualche elemento in più come, per esempio, il velo.
Eloisa, fondatrice del Paracleto, in una lettera ad Abelardo, si lamenta scrivendogli le sue riflessioni sulla regola benedettina, della tunica di lana che questa prescrive, in quanto non adatta alle donne perché si sporca di sangue con le mestruazioni: “E’ evidente – dice Eloisa- che la Regola fu scritta per gli uomini. Che senso ha per le donne quella che in lei si dice riguardo ai cappucci, alla gambiera e agli scapolari? Che cosa interessa a noi donne portare sulla pelle nuda dal momento che noi, a causa delle mestruazioni, non possiamo affatto indossarli”. Storia delle mie disgrazie. Lettere di Abelardo e Eloisa, a cura di F. Roncoroni, Garzanti, Milano, 1974).
L’abito monastico della sposa presuppone che tutto di lei debba essere coperto. Il coprire nega la femminilità, l’attrattiva della femminilità, anche essa costruzione maschile, nel suo messaggio sessuale e di “bellezza”. Gli occhi, le mani, e qualche volta i piedi, sono le uniche parti della consacrata ad essere risparmiati dalla copertura.
In questa sede prenderò in considerazione solamente due capi d’abbigliamento della sposa di Dio: il velo e i sandali.
RITRATTI DI DONNE VELATE
Il velo è un capo dell’abbigliamento femminile che ritroviamo nell’ebraismo, nell’islamismo (l’analisi comparativa con culture diverse dalla nostra aiuta moltissimo a comprendere “noi”).
Dire velo significa dire testa-capelli delle donne che si possono correlare ai significati della sessualità-verginità-possesso relativi all’uso che ne fanno i maschi.
I capelli femminili hanno una valenza di bellezza nel vissuto quotidiano delle donne. Quando sono lunghi e sciolti rappresentano la bellezza della giovinezza, dell’attrattiva sessuale, la pienezza della verginità che poeti cantano nella poesia, raffigurano nell’arte.
Il loro taglio testimonia l’avvenuta deflorazione della donna da parte del marito-uomo o del marito-Dio. A proposito, ricordiamo, che non è molto lontano nel tempo il costume delle donne europee di tagliarsi i capelli dopo il matrimonio.
Il velo assolve alla funzione di coprire, nascondere la tonsura femminile.
Testa, capelli-tagliati, deflorazione non hanno il loro corrispettivo maschile.
Nella tonsura del monaco la testa rimane scoperta per segnalare la virilità di quest’ultimo. Egli affronta il mondo a “testa alta”, scoperta; la donna, umile e devota, si china davanti alla divinità con il velo.
Fu San Paolo a volere le femminine cristiane velate (lettera ai Corinzi 11,6).
Il velo rimanda a significati di potenza trascendente. La testa velata, infatti, implica un rapporto con la luminosità della morte presso moltissime popolazioni. Alcuni esempi li troviamo proprio nell’antica Roma: il sacerdote che sacrifica agli dèi colui che si getta nel Tevere autoimolandosi.
Cesare morente, si coprono la testa, una testa, però, con capelli senza “trascendenza”.
E le donne? Non abbiamo detto che i capelli lunghi delle donne sono la loro bellezza che ornano con perle, nastri, corone di fiori, tutte cose analoghe e alle donne, alla loro bellezza?
Quanto hanno dovuto soffrire, le donne, quando rituali o punizioni pubbliche hanno imposto loro la rasatura? (durante la II guerra mondiale ad una donna che tradiva andando a letto con il nemico si “rapava”).
Alessandro Manzoni nel narrare la storia della monaca di Monza descrive la sofferenza che questa ha provato nel dover aderire al ruolo assegnatole dall’ordine di appartenenza e quindi anche dall’abito religioso prescritto: “ Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata, e dalla benda,usciva su una tempia una ciotola di capelli neri, cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli corti, da quando erano stati tagliati nella cerimonia del vestimento (I promessi sposi, a cura di Piero Nardi, Milano, Mondadori, [1970], p. 235).
PERCHE’ NON POSSO LIBRARMI NELL’ARIA?
I sandali sono un altro tratto che vorrei isolare. Dire sandali vuol dire piedi e cioè ancora una volta differenza di significati tra uomini e donne.
Andare scalzo è stato sempre interpretato come segno di umiltà. I sandali alludono alla nudità del piede, ma per motivi concreti, per esempio, la rigidità del clima in inverno, eremiti, monaci, sono stati costretti a calzare i sandali che, comunque, rimandavano al piede nudo e penitente.
Già con la regola di Cassiano (400 d. C.) si parla dell’uso dei sandali da parte dei monaci.
La differenza fra piedi nudi degli uomini e piedi nudi delle donne anche nei sandali è enorme.
Con i piedi i maschi “calpestano” la terra, stanno con i piedi per terra, appunto, che è loro, mentre le femminine, attraverso questa parte del loro corpo, si librano nell’aria. Al riguardo, sarebbe interessante ripercorrere il cambiamento nella storia della calzatura femminile. Ne verrebbe fuori un quadro in cui i significati di eroticità, leggerezza, eleganza, purezza, trascendenza si mescolano con i suoi piedi.
Questi significati sono riassunti in forma gestaltica nel balletto classico (le scarpette rosse delle Ninfe e delle Silfidi), nella fiaba (la scarpetta di cristallo di Cenerentola), nei film (penso soprattutto a “Amore pedestre” di Marcel Fabre, 1914).
I significati di leggerezza trascendente dei piedi interrelati a quelli di bellezza-verginità-giovinezza dei capelli riassumono e sintetizzano l’immagine ideale femminile creata dal sogno maschile.
L’abito religioso delle monache vuole, al contrario, piedi nudi nei sandali, calze pesanti, grosse scarpe nere. A volte le monache vi si adeguano in silenzio, obbediscono alla regola. Altre volte si ribellano. E’ a queste voci che bisogna dare spazio.
Teresa di Lisieux, monaca carmelitana
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