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Michel Foucault: come ricostruire la storia, le storie...!

di Nico Carlucci

“E’ uno strano coraggio
che mi dai, astro antico
Brilli solo nell’aurora
A cui nulla concedi”

William Carlos Williams


Voglio rimettere al centro del dibattito contemporaneo il pensiero di Michel Foucault. Mi chiedo se ciò ha senso farlo tramite internet. Quest’ultimo, è attraversato da un codice di scrittura preciso e forse lontano dalla “letteratura”.
Per molti versi, quanto il filosofo francese teorizza è vicino all’Antropologia.
In questo breve intervento, allora, cerchiamo di capirlo.



Il tempo dell’ erranza

Intanto quello che è chiaro è che Foucault non fu né uno strutturalista, né uno storicista (Paul Vayne: Foucault: Il pensiero e l’Uomo, Milano, Garzanti, 2010).
Come amava definirsi, lo studioso era un pensatore “scettico”, lontano da tutte le trascendenze fondatrici. In altri termini, era un intellettuale “nuovo”, un “filosofo dell’intelletto” spesso attaccato e criticato proprio da quel potere che egli, viceversa, andava svelando nei suoi studi.
Antropologia empirica come qualcuno ama definirla? Beh, sicuramente Foucault ama la critica storica che è prima di tutto sfida estrema alla storia umana al di là del potere, dell’economia, delle religioni. E’ quanto fa anche la scienza della cultura, l’Antropologia che arriva come un vento, all’improvviso.
Per capire la follia, la sessualità e la punizione del sistema carcerario, in altre parole la cultura, Foucault punta sull’analisi dei loro “discorsi” che decifra con lucidità. Gli uomini di una determinata epoca vivono attraversando questi discorsi e lo fanno, secondo il filosofo francese, implicitamente. Non universalismi , quindi, ma “pratiche discorsive” che riguardo all’amore, vede, per esempio, gli antichi scrivere e parlare di piaceri afrodisiaci, con al centro i comportamenti amorosi di un’ era, al tempo stesso, timida e priva di peccato.
Partire, quindi, da ciò che si “diceva” e si faceva insieme al contorno dei costumi, del linguaggio, dei saperi, delle norme, delle leggi, delle istituzioni. In sintesi, mettere in luce il “dispositivo” come lo chiama Michel che, in ultima analisi, si esplica tramite “pratiche discorsive”.


Perché non dici Cultura?

Tutti i fatti storici a cui Foucault rimanda sono singolari, unici. Egli non pensa che esistano verità generali da cui parole e storie traggono origine. In ciò è evidente l’influenza della filosofia di Nietzsche di cui il pensatore francese dichiara di essere continuatore.
Sotteso alla storia dell’umanità non vi è nulla di reale, di razionale. Occorre “rintracciare la singolarità degli eventi, fuori da ogni finalità monotona”(L’Archeologie su savoir, Gallimard, Paris, 1969).
Foucault, dal canto suo, pur sfiorandolo a più riprese, non si serve del concetto di cultura. Quello che lui chiama contorno dei costumi, del linguaggio, ecc. sono, i realtà, un “insieme complesso", la cultura, all’interno del quale io metto anche il “discorso” che lui, viceversa, antepone a tutto il resto. Ed è allora che non avremmo più, per davvero, “un primo” della Storia, ma solo il divenire della nostra specie e la sua “libertà”. Gli uomini non hanno mai cessato, infatti, di costruire se stessi, vale a dire di spostare continuamente la loro soggettività, di costituirsi in una serie infinita e multipla.
Quando Foucault allude all’implicito della “pratica discorsiva” potremmo tradurlo con il concetto dell’inconsapevole messo in luce dagli studi antropologici delle culture. Inconsapevole e non inconscio a cui, viceversa, si richiama Freud. Tutti e due sono il “non detto”, ma trattati da due punti di vista diversi. Il primo presuppone i processi della storia, l’incontro di un ambiente interno con uno esterno. L’inconscio crede nella sua universalità, è fisso mentre l’inconsapevole no. Quest’ultimo si fa nel divenire, nel tempo, ha una “durata”. Passa silenzioso e agisce e l’uomo non lo sa!
Per Foucault e l’Antropologia i “problemi” si dissolvono in questioni di storia. E certamente il lavoro diventa, allora, quello della “costruzione di questi fatti della storia”, che di per sé non esistono. E quindi, aggiungo io, l’erranza dello studioso, del filosofo e dell’antropologo che possono perfino sbagliare, alla ricerca di “verità” possibili.


Il fuoco divino del Sacro

Nell’opera irrinunciabile di Foucault manca la categoria del Sacro che è non separabile dal Potere a cui l’intellettuale francese dedica pagine mirabili grazie ad un lucidità non comune. Si, il Sacro nell’accezione di Rudolf Otto (1896-1937), il “mysterium tremendum”, su cui, ricordiamo, si radica il Potere che inesorabilmente fa entrare in campo il gioco della Morte.
Logica del Potere, logica del Sacro, quindi, messi in luce da Ida Magli nei suoi acuti studi dei modelli culturali.
Foucault scrive che il suo obiettivo è stato: “mostrare in che modo l’accoppiamento di una serie di pratiche-regime di verità formi un dispositivo di sapere-potere” (Nascita della biopolitica. Corso al College de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano, 2005).
La follia, per esempio, è entrata, secondo Michel, in un “dispositivo” che ne ha fatto una realtà, un regime di “verità” e di “pratiche” di una determinata epoca. Il matto è stato, di volta in volta, ispirato dal “fuoco divino” o ricoverato come malato di mente. E questo è “vero”. Ma la follia appartiene al Sacro, al mondo della profezia e della visione estatica, alla dimensione o di una santità riconosciuta o di una allucinazione drogata.
Il filosofo e l’antropologo, allora, si incontrano, parlano, discutono, si arrabbiano; l’uno rimprovera l’altro e viceversa; vanno insieme, respirano, amano e arrivano a conclusioni che “non si concludono”. Le domande ricominciano a bussare, al cuore e alla mente, ogni volta, all’in-finito.

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