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Un occhio sull'Universo: l'Antropologia culturale

di Nico Carlucci



L’Antropologia ha origine verso la fine del XIX secolo. Edward. B. Tylor, britannico, dà nel 1871 una delle prime definizioni di cultura che è, prima di tutto: “…insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e ogni altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società”. E’, quella di Tylor, una definizione che non sempre, nei tempi, è stata percepita nella sua profondità o nella sua rivoluzione in ambito scientifico. Basti pensare che Primitive culture, opera da cui è tratta la suddetta definizione, ha fatto fatica a trovare una sua traduzione dall’inglese all’italiano. Come abbiamo visto nel precedente articolo da me scritto per questo blog “indie” , anche James Frazer appartiene a questo modello del positivismo antropologico proprio della fine dell’Ottocento. Ma sia lui che Tylor sono stati scienziati che hanno usato materiali raccolti da altri, di solito missionari, esploratori, ufficiali coloniali, motivo per il quale sono stati chiamati “antropologi da poltrona”. Questi studiosi erano interessati a capire perché i popoli che vivevano in diverse parti del globo avessero tratti culturali simili. Lewis. H. Morgan, dal canto suo, ipotizzava come i suoi colleghi che le somiglianze delle culture indicassero che i differenti gruppi fossero passati attraverso i medesimi stadi di sviluppo


Un mito non si inventa subito

All'inizio alcuni antropologi ebbero come loro metodo quello dell' "osservazione partecipante". Trattasi di uno studio delle culture che fa dell’antropologo colui che “partecipa” al vissuto dei popoli nel momento in cui ne parla: Bronislaw Malinwoski svolge, così, il suo “lavoro sul campo” nelle isole Trobriand mentre Franz Boas nelle isole Baffin. Verso la fine del XIX secolo nasce anche il diffusionismo. Esso serve per spiegare la somiglianza tra le culture grazie ai contatti geografici tra i gruppi. Prendo dall'altro quello che è più difficile inventare in proprio: il mito, il rito, l’ arte, la tecnica. Gli antropologi che se ne occuparono facevano, tuttavia, notare che tali somiglianze erano, spesso, superficiali: i tratti culturali che subivano un processo di diffusione, spesso, cambiavano di significato e di funzione nel trasferimento da una società all'altra. Di conseguenza, molti erano coloro che si preoccupavano di comprendere le culture particolari. Essi promossero, allora, la concezione che le credenze e i comportamenti di una persona potessero essere compresi solo nel contesto della cultura in cui viveva.

Momenti di gloria dell’Antropologia

Nei primi decenni del Novecento uno dei più grandi antropologi. A. Kroeber, allievo di Boas, riconosceva il carattere autonomo della cultura. E’ il motivo per il quale egli elaborava criteri metodologici per studiarla. Viene fuori, così, il “Superorgarnico” che metteva in luce i modelli o meglio le “configurazioni” o “pattern” delle diverse culture. Kroeber, purtroppo, è stato così poco citato dalla maggior parte degli studiosi italiani che diventa, ora, possibile parlare di una loro “malafede” nell’ambito della Scienza. Boas fu il maestro di numerosi e grandi antropologi che nella prima metà del Novecento contribuirono allo sviluppo della disciplina; ricordiamo solo alcuni dei nomi più significativi: A. Kroeber, appunto, R. Lowie, E. Sapir, M. Herskovits, A. Goldenweiser, C. Wissler, R. Benedict, M. Mead, A. Montagu. Di E. Sapir, bisogna sottolineare che contribuì, nel 1921, a porre i fondamenti della linguistica e dei rapporti tra personalità, pensiero e cultura. Nel 1957 Kluckhohn, invece, si dedica ad una prima rassegna dei contributi che si erano avuti nella ricerca degli «universali della cultura». J. Steward scriveva di una pluralità di linee del cambiamento culturale. Abbiamo, poi, altre correnti. La linea marxista (Z. Baumann, 1973) o paramarxista (M. Harris, 1968), quella funzionalistica (funzionalismo), che ha dato luogo all'odierna antropologia sociale inglese (B. Malinowski, A.R. Radcliffe-Brown, E.E. Evans-Pritchard), quella psicologica, rappresentata da A. Kardiner, quella psicanalitica, con il rumeno G. Roheim. M. Harris e C. Geertz godono di notevole prestigio, ma le loro proposte non sempre corrispondono a teorizzazioni formalmente elaborate. Da questi pochi fili possiamo, prima di tutto, riconoscere che l’Antropologia culturale è americana. Essa ha assunto in Europa una frammentazione con le sue diverse denominazioni: antropologia sociale, storica, medica, antropologia della complessità, della contemporaneità, delle religioni, ecc. Si è assistito, così, alla sua spezzettatura finendo con il dissolversi nelle università. E questo, credo, perché è mancata la sistematicità e il rigore che una scienza necessariamente richiede. Ma l’ America guarda all’ Antropologia culturale con un occhio che fa prevalere l’ “etnografia”. In passato ciò permette di parlare di culture “locali”. Ai nostri giorni gli antropologi statunitensi ritengono che non sia possibile capire i modi di vita dei gruppi umani senza integrare al localismo anche con le relazioni politiche ed economiche globali. Si possono, in proposito, ricordare: James Clifford, Michael Taussing, Joan Vincent. Gli ultimi due lavorano alla Columbia Unversity di New York, nell'università della gloria antropologica, la Ivy League che negli anni Novanta, però, ha visto attonita la defezione dei grandi pensatori. Perchè?

E in Italia?


Negli ultimi decenni, nel Belpaese, alcuni antropologi hanno “tradito” paradossalmente l’Antropologia. Essi hanno sottolineato il carattere astratto e “ costruito" non solo dell'etnia e del gruppo, ma addirittura anche dello stesso concetto di cultura. Quest’ultimo dicono che sia “non fondato”. La cultura è accusata di aver contribuito alla creazione di identità “forti” utilizzate soprattutto nell’ambito dei contrasti politici. Al riguardo, rimando ai libri di Ugo Fabietti. Spesso, gli antropologi del “tradimento” appartengono all’area marxista che “colonizza” i popoli già colonizzati nel passato, con i “valori” di Marx. E ora li relega e ci relega nel mare dell’indistinto e dell’astensione disumana dal “giudizio”. Assistiamo, sgomenti, ad una “libido moriendi” che porta, per esempio, la Commissione europea ad omettere dal suo calendario da distribuire nelle scuole superiori di secondo grado, le feste più importanti della tradizione cristiana a vantaggio di quelle che appartengono ad altre culture. Sono stati prodotti, infatti, più di tre milioni di copie di questo diario nel quale scompare il Natale per includere le festività ebraiche, indù, sikh e mussulmane.
Ida Magli è una antropologa poco amata dall’accademia italiana, forse, perché ha fatto uscire la scienza della cultura dal provincialismo dello studio nostrano delle tradizione popolari e folkloriche. Pur avendo teorizzato, sofferto per le scoperte che i suoi studi portavano alla luce, la Magli è rimasta sola, ma continua con testardaggine a scrivere e pubblicare su tutto ciò che ha a che fare con l’ovvietà dei modelli culturali. Non ultimo, la falsità del Trattato di Maastricht che calpesta le identità delle nazioni del Vecchio continente.
Alla fine di questo breve excursus della storia e dei problemi dell’Antropologia, mi domando: “Il mondo dove va? Forse, il mondo va verso una globalizzazione “voluta” che, di conseguenza, non poteva non portare al “political correnct”, al calendario della Commisione europea di cui parlavo prima. L’Occidente, la nostra cultura scompariranno? Cosa rimane? Restano le scoperte dell’Antropologia, la ricchezza di sapere che ha dato alla biologia, alla psichiatria, alla storia. La speranza si riverbera e continua a bussare con la ricerca e la scienza le cui porte rimangono disperatamente aperte.

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