a cura di Nico Carlucci
Per
Kierkegaard la dimensione dell’angoscia è costitutiva dell’esistenza
stessa dell’uomo, essa si fonda in ciò che l’uomo stesso è: una sintesi
sempre dinamica di anima e corpo, finito e infinito, sintesi che viene
designata con il termine spirito. L'angoscia è infatti propria
di uno spirito incarnato, quale è l'uomo, di un essere fornito di una
libertà che non è né necessità, né astratto libero arbitrio, ma libertà
condizionata dalla situazione, ossia dalla possibilità di ciò che può
accadere, di poter agire in un mondo in cui non può sapere cosa accadrà.
Essa non è presente nella bestia che, priva di spirito, è guidata dalla
necessità dell'istinto, né nell'angelo che, puro spirito, non è
condizionato dalle situazioni concrete. «Se l’uomo fosse animale o
angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi, egli può
angosciarsi.»
La possibilità è la categoria fondamentale dell'esistenza e la condizione di insicurezza. L'uomo sa di poter scegliere, di Egli acquista la coscienza che tutto è possibile, ma proprio quando
tutto è possibile è come se nulla fosse possibile, e la possibilità
pertanto non si riveste di positività, ma è la possibilità dello scacco,
la possibilità del nulla.
"Heidegger discorre a lungo intorno al fenomeno dell’angoscia, ritenendolo il più adatto a svelare l’essenza dell’uomo.
L’esserci (uomo) è in maniera strutturale emotivamente aperto al mondo e
ciò si rivela nei diversi stati d’animo, tra i quali assume particolare
rilevanza proprio l’angoscia che, a differenza della paura, non si ha
di fronte a qualcosa di determinato, bensì alla totale indeterminatezza,
al nulla come totale assenza di significato del mondo stesso. L’uomo si
ritrova ad esistere senza sapere donde viene e dove va, percepisce la
sua esistenza come un puro essere-gettato nel mondo. Percezione del
nulla e percezione della libertà si implicano vicendevolmente
nell’angoscia, portando l’uomo alla fuga da sé, ad abdicare
irresistibilmente alla propria responsabilità e libertà, a rifugiarsi
nel mondo tranquillizzante dell’esistenza inautentica, del Si (man)".
Ma
per Heidegger il modo giusto di vivere, l’esistenza autentica va a
coincidere con il vivere-per-la-morte: la vita può svolgersi entro un
orizzonte autentico se e solo se le scelte dell’uomo sono rapportate
alla sua stessa finitezza. Se le scelte fossero svolte entro un ambito
di vita eterna, perderebbero di significato perché non comporterebbero
alcuna assunzione di responsabilità, in quanto ogni evento e ogni scelta
potrebbe essere ripetuta all'infinito, ogni strada potrebbe essere
battuta, superando quel principio di esclusione (l'aut-aut
kierkegaardiano) per cui una decisione comporta alcune conseguenze e non
altre: una vera condanna all'eternità, nella quale ogni scelta
risulterebbe indifferente e la vita stessa perderebbe di significato,
cedendo all'apatia e all'indifferenza. Il vivere-per-la-morte è concetto
positivo: solo la consapevolezza della finitezza umana è in grado di
produrre quel significato e quell'attenzione per le cose del mondo che
non si potrebbero avere se, perduto nell'eternità, l’uomo avesse la
consapevolezza di poterne godere in eterno.
Da
qui l’esortazione ad avere il coraggio dell’angoscia, poiché derivando
essa proprio dalla suddetta consapevolezza di finitezza, oltre ad
essere uno stato emotivo indissolubilmente legato all'esistenza
autentica, è anche un sentimento positivo, dal quale non sfuggire,
necessario a dare significato autentico alla vita, mentre chi vive
nell'esistenza inautentica tende a dimenticare la morte e ad allontanare
l'angoscia, in un modo che ricorda da vicino le considerazioni
pascaliane sul "divertissement".
Anche
Sartre parla di comportamenti di fuga e di scusa, la “malafede”, una
sorta di menzogna raccontata a se stessi e su se stessi, un tentativo di
rifugiarsi nel modo di essere tranquillizzante dell’in-sé, accettando
regole e gerarchie sociali. Ma la fuga risulta impossibile, perché nel
momento stesso in cui l’uomo fugge da sé e dalla propria angoscia si
rende perfettamente consapevole di essa, la sperimenta appieno e
cercando di fuggire alla propria libertà ne fa completo uso. Ma per
Sartre questa situazione non può avere esito positivo: l’ineluttabilità
di libertà e angoscia è l’ineluttabilità di una vita destinata allo
scacco. L’uomo è condannato a vivere questo continuo superamento di ciò
che è in direzione del proprio non-essere-ancora senza mai giungere a
compimento, senza mai ottenere un appagamento, continuando a comportarsi
“come un asino che tira un carretto e che tenta di prendere una carota
fissata alla punta di un bastone anch’esso legato alle stanghe del
carro. Ogni sforzo dell’asino per afferrare la carota ha per effetto di
far avanzare tutto il carretto e anche la carota che rimane sempre alla
stessa distanza dall’asino.”
Soren Kierkegaard
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